RECENSIONE de LA FACCIA BRUTTA

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La faccia brutta, nauseante, dell’esistenza

 

Dopo aver letto Catene, mi sono avvicinato alla seconda opera di Andrea Alberto Forchino con aspettative che, in tutta sincerità, non sono state deluse. Dopo la raccolta di racconti, il giovane autore eporediese ha dato vita ad un romanzo che prosegue quanto la fine della sua opera prima aveva interrotto. La faccia brutta è un singolare affresco di certo arretrato Piemonte che difficilmente può essere fruito appieno da chi non abbia fatto esperienza, anche solo di sfuggita, delle valli dell’Eporediese. Si respira quell’aria torbida che così tanto stona rispetto alla vivacità della metropoli torinese lontana appena qualche decina di kilometri. Siamo addirittura oltre le «buone cose di pessimo gusto» (L’amica di nonna Speranza, v. 12) cantate dal crepuscolarismo di Guido Gozzano. Oltre lo stantìo che si può ancora avvertire in certi luoghi del Canavese.

E cos’altro, oltre il cattivo gusto, se non la grettezza, la volgarità, la rozzezza, la cattiveria? Quasi al termine del romanzo, prima di commettere l’assassinio del fidanzato, l’infermiera altruista Elisa si intrattiene a dialogare con Lucio Delpero. L’amico le rivela, allora, la neanche troppo velata trama che sta alla base dell’esistenza della faccia brutta della vita:

 

Elisa fece una pausa per ingollare quel poco di prosecco che le rimaneva nel bicchiere e poi continuò: «Per questo ti dico che dobbiamo aiutarci tra di noi, altrimenti è finita. Non ci sarà una mano dall’altro che ci tirerà fuori dalla merda, quella mano dobbiamo darcela noi l’un l’altro». «Belle parole, Elisa», commentò Delpero. «Però ora dimmi: quante delle persone che affollano questa piazza pensi siano disposte ad aiutarsi a vicenda?». «Non saprei…». «Forse solo tu. Elisa, ricordati che l’uomo non è buono come tu lo vorresti».

 

Ricorrono, nel romanzo, il sangue e lo sterco. Uno dei protagonisti, Severino Rampìn, si vendica dell’amico-nemico Fausto Delpero defecandogli sul letto. E, solo qualche pagina dopo, si ritrova il cortile di casa pieno di escrementi misti a buccia di pomodoro dopo aver gettato gli scarti della conserva nel bagno. Lucio Delpero, protagonista della seconda parte del romanzo, inizia la sua sventura rompendo il naso, con un pugno, alla sua ragazza, Nadia. L’abbandono di quella che era la sua sola àncora di salvezza, dà inizio ai suoi problemi con l’alcol e con il mondo intero. Il cerchio si chiude quando, per ricambiare l’amicizia di Elisa, Lucio si trova le mani sporche del sangue del fidanzato ucciso dalla ragazza.

«Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione», scriveva Jean-Paul Sartre nel suo fortunato romanzo La nausea (1938). Anche i personaggi di La faccia brutta sono in qualche modo gettati nel mondo senza ragione. Tirano avanti, come Severino Rampìn, con l’unico scopo dell’annientamento. Ad ogni pagina della prima parte del romanzo, la moglie Lina impartisce ordini allo scheletrico vecchietto, che esegue senza lamentarsi. Lo offende fino all’inverosimile, ma Severino – anziché ribellarsi – pensa che l’unico modo per evadere dalla noia della sua esistenza sia quello di uccidersi a piccoli passi, avvelenando i suoi polmoni:

 

Nelle sue fantasie immaginava di andarsene da un giorno all’altro, senza nessun preavviso: avrebbe goduto nel vedere la faccia di Lina quando se ne fosse accorta. E invece nella realtà non riusciva a fare nulla se non sopportare. Da un po’ di tempo provava un insolito piacere nel lasciarsi andare alla trascuratezza, aveva voglia di buttarsi via. Non aveva abbastanza coraggio per ammazzarsi ma voleva consumarsi il prima possibile, era la sua unica possibilità di fuggire da quella vita d’inferno. Così da anni fumava più che poteva e i due pacchetti al giorno incominciavano a procurargli seri problemi di respirazione. Ne era felice.

 

Dopo varie disavventure, la conquistata confidenza con lo sfaccendato ex maresciallo Fausto gli darà il coraggio di fuggire dalla prigionia della moglie per attendere che la morte possa garantirgli l’agognata pace.

La scarsa igiene che sta alla base dei personaggi, caratterizza un po’ tutte le pagine del racconto. Causa nel lettore un senso di nausea, tanto per richiamare ancora Sartre. Fausto Delpero si abbandona alla vita come meglio può. Non si cura dei debiti nè, tantomeno, di sé stesso. Gli abiti sporchi abbandonati sul letto sono il ritratto fedele di questo grottesco campione di sporcizia e trascuratezza. Recandosi al cimitero per un saluto alla moglie defunta, a Fausto capita di riflettere sulla sua morte:

 

Pensò che quando sarebbe toccato a lui il mondo si sarebbe scordato molto presto di quel coglione del maresciallo Fausto. Sorrise all’idea. Sapeva bene che alla sua morte non avrebbe lasciato nulla se non dei debiti da pagare e che quindi proprio nessuno sarebbe mai venuto a omaggiarlo con un fiore o con una lacrima. Ma che importava? La morte esiste solo per chi vive, inutile preoccuparsene.

 

Gettati nel mondo, i personaggi de La faccia brutta vivono i loro drammi senza speranza di salvazione. Tentano di reagire, ma restano immersi nello sterco fino al collo. Lo dice a chiare lettere ancora Fausto Delpero, cercando di convincere l’amico Severino a fuggire dalla sua dittatrice:

 

«Sai, siamo più simili di quello che pensiamo. Siamo due naufraghi dispersi in un mare di merda che arrancano alla ricerca di un salvagente qualunque». Prima che Severino potesse afferrare il senso delle parole di Fausto questo continuò: «Tutto cambia attorno a noi, l’unica cosa che resta sempre uguale è la nostra voglia di salvezza, non riusciamo mai a rassegnarci del tutto».

 

A loro modo, infatti, i personaggi del romanzo lottano contro la faccia brutta della vita. Non sanno rassegnarsi.

Lucio Delpero, nella seconda parte del libro, cerca la salvezza nell’abbandono alla violenza ed all’alcol. Singolare quanto il padre, non trova differenza nel gustare il piacere nell’ambiguità di un transessuale o nello stupro di una ragazza ubriaca e priva di sensi. Ma l’esito della sua ribellione contro il male sotteso all’esistenza, non si risolve in altro che nel naufragio nello sterco descritto da Fausto a Saverino. Venuto meno l’equilibrio mentale causato dalla presenza di Nadia, Lucio perde ogni altra certezza. Quando vengono licenziati alcuni suo colleghi di lavoro, ritiene ancora che la vita gli riserverà una sorte diversa, e reagisce rabbiosamente:

 

Foggi scoppiò in una risata. «Credi davvero che il sindacato stia dalla nostra parte? Beato te, che vivi nel mondo delle favole!». Delpero scagliò un pugno contro l’armadietto e per un istante nello spogliatoio calò il silenzio.

 

Ma in seguito anche questo equivoco giovane perderà la bussola e, con essa, la sua partita a dadi con la faccia brutta della vita. Reagiscerà, per tutta risposta, sfondando con l’auto la vetrata del sindacato, reo di averlo abbandonato alla sua sorte. Ma da questo tentativo di non arrendersi, di lottare contro il marcio dell’esistenza, non sortiranno che mesi di prigione.

Gli antieroici personaggi del libro sono la caricatura dei mali che avvelenano la società moderna. Disperazione ed aspirazioni suicide, trasandatezza, menefreghismo, ambiguità. Ogni pagina del romanzo è piena zeppa del peggio che la vita possa riservare. Le espressioni volgari calzano a pennello nella maschera di Lina, che incarna il prototipo della moglie bisbetica incapace di apprezzare quanto (poco) di buono (la dedizione del marito) le ha saputo riservare la sorte. La poca igiene ben si addice al maresciallo in pensione che, assieme a Severino, occupa – anche con la sua enorme mole – la prima parte del volume. Fausto Delpero sguazza nella sporcizia perché è la sua vita ad essere sudicia. Non curandosi di nulla, causa nausea nel prossimo. E le sole soddisfazioni che sa ricavare dalla vita gli arrivano dalla sua ciclopica stazza, dalla volgarità e dalla sua precedente posizione nella scala sociale.

Eppure, in un mondo così malato, nemmeno il prestigio conquistato dall’ex maresciallo riesce a salvare il figlio Lucio dalla perdizione. Nemmeno snocciolando i numeri della disoccupazione giovanile si riuscirebbe a descrivere così impietosamente, come nella seconda parte di questo breve romanzo, quanto possa essere destabilizzante, per il singolo e per la società, la perdita di una stabile occupazione.

 

Emanuele Marcheselli

giornalista e storico della filosofia